A chi è capitato, almeno una volta nella vita, di vedere un fiasco di vino rosso? Per noi toscani è piuttosto probabile vederlo “troneggiare” sulla tavola dei nonni o di una trattoria tipica.
Il fiasco, oggetto che ha il sapore di tempi lontani, è uno dei simboli della nostra tradizione. Attualmente meno diffuso rispetto alla bordolese, evoca il momento di convivialità che gli antichi contadini condividevano, magari al “canto” del fuoco, davanti a del cibo povero.
La nascita del fiasco
Sembra che la produzione dei fiaschi sia iniziata proprio qui vicino a noi. Dove, nell’area della Valdelsa (Poggibonsi, San Gimignano, Gambassi Terme, Montaione), già nel 1230 risulta che fosse attiva una fornace.
I primi documenti a far riferimento al fiasco come recipiente di vetro ideale per contenere il vino risalgono al Quattrocento. Ma da una fonte letteraria molto conosciuta – il Decameron di Boccaccio, scritto tra il 1349 e il 1353 – si evince che circolasse già alla metà del Trecento.
Ciò che pare certo è che il fiasco sostituisse i contenitori di stagno, soggetti a continue frodi, in quanto veniva loro aggiunto troppo piombo.
La peculiarità del fiasco
La peculiarità di questo manufatto – oltre alla forma panciuta senza piedi – consiste nell’impagliatura. Essa si rivelò molto utile sia per proteggere il recipiente dagli urti sia per conservare il vino, al riparo in questo modo dai raggi solari.
Il rivestimento veniva realizzato a mano con la stiancia (typha latifolia), erba palustre molto diffusa negli acquitrini dell’area, facilmente modellabile e di fibra resistente. Tale pratica, che richiedeva una certa manualità, fu esercitata principalmente dalle donne, le cosiddette “fiascaie”.
Nei secoli il modo di realizzare l’impagliatura è cambiato: inizialmente il fiasco – rivestito fino a coprire tutto il collo – era diverso da quello che conosciamo noi oggi, impagliato solo sulla pancia.
Il modo di dire “fare fiasco”
Il modo di dire “fare fiasco”, che fa riferimento ad un completo insuccesso, sembra proprio essere legato al contenitore di vino tipicamente toscano. Esistono varie ipotesi sulla nascita di questa espressione, presente anche nel vocabolario inglese, francese e tedesco.
Secondo alcuni essa sarebbe legata ad un flop teatrale e al riguardo circolano due versioni. Si dice che un artista – che ogni sera si esibiva in divertenti monologhi utilizzando degli oggetti – avrebbe portato in scena un fiasco facendo annoiare terribilmente il pubblico. Circola anche la storia dell’attore comico seicentesco Domenico Biancolelli, che avrebbe improvvisato un’esibizione su un fiasco senza però far ridere nessuno.
Altri invece ritengono che “fare fiasco” alluda al soffiatore di vetro che si accinge a creare qualcosa di bello e invece ottiene un oggetto dall’aspetto goffo.
Un’ultima interpretazione è che il detto derivi dall’abitudine diffusa nelle fabbriche veneziane di gettare nel recipiente in questione i frantumi dei pezzi non riusciti.
Il fiasco oggi
Un insieme di fattori – l’“estinzione” della figura della “fiascaia”, la diffusione della bordolese, la sostituzione della paglia con la plastica – ha decretato la fine di un’era per il plurisecolare fiasco, passato da creazione artigianale a una standardizzazione industriale riservata a vini di bassa qualità.
Tuttavia per fortuna c’è una bella notizia per il nostro “amico” fiasco: recentemente alcune aziende vinicole toscane hanno intrapreso un’azione di recupero volta a riabilitare il valore storico e identitario di questo manufatto straordinario.
Anche noi qui a Poggio al Bosco negli scorsi anni abbiamo infiascato una piccola parte della produzione del nostro Chianti DOCG.